MEMORIE DEL SOTTOSUOLO
Black Hole / Nonmuseo, Varese
maggio 2022 – aprile 2023

Ma alla fine cos’è la modernità? E dove sarebbe iniziata? E quando? E dov’è finita?

E cos’è il progresso? L’abbiamo incontrato, superato e ce lo siamo lasciato alle spalle?

Una serie infinita di costruzioni, di macchine, di tecnica che avrebbe dovuto rendere più facile la vita umana e più felice la condizione sulla terra? E la terra? Con tutto ciò che contiene sopra e sotto? Cosa dovremmo farne ancora? E poi?

E poi ti trovi corpo estraneo al di sotto dell’ultimo livello della Azovstal e pensi che forse sia meglio rimanere lì. Cercare di ricreare un mondo separato, con quello che riesci a trovare, con quello che ti inventi, con tutto ciò che là sotto riesce a sopravvivere. Con coloro che hanno scelto di rimanere. Ogni tanto una incursione nel fuori per recuperare ciò che manca o potrebbe servire. E poi tornare sotto. Non sarebbe facile. Ma almeno non sei lì fuori. Nel delirio della guerra e dello spettacolo. Dello spettacolo della guerra. Già. Nel bunker dell’underground. Ancora.

Potrebbe crescere qualcosa qui sotto? Oppure sarebbe un altro fallimento? Di cosa ci sarebbe bisogno ancora? Potrebbe funzionare in autonomia o avrebbe bisogno di un po’ di cura? E i risultati sarebbero conformi alle aspettative? Troveremmo ciò che cercavamo? (Joykix Hydra Mentale)

Per The Black Hole, spazio espositivo sperimentale del Liceo (la buca d’ispezione dell’ex officina), Joykix, presenta Memorie del sottosuolo, un lavoro composto da elementi eterogenei che entrano in contatto e dialogo, ritmando attraverso la dialettica di una struttura architettonica natura e artificio, e così le dinamiche della vita contemporanea, metaforizzata dalla crescita e cura di un microcosmo naturale custodito, privato e aperto allo stesso tempo. L’opera è quasi un’incubatrice, una macchina non-celibe, mediatrice di possibilità, post-ecologica e profondamente poetica. Una grande scultura-struttura sotterranea che si muove idealmente in dialettica opposta alla macchina celibe di memoria duchampiana, caratterizzata dalla proiezione in sé, del movimento fine a se stesso. Si rammenta inoltre come referente linguistico all’interno del sistema dell’arte del’900 che il Grande vetro è intitolato “La sposa denudata dai suoi celibi”: un ingegnoso, curioso e intellettuale e anche complesso intreccio di meccanismi di cui non si riesce bene a vedere e capire il funzionamento e sopratutto l’utilità. In Joykix la macchina è non-celibe, non si sposa… è più vicina a quella battezzata come “macchina desiderante” dai filosofi Deleuze e Guattari. Riflessioni molto care all’artista legate alle molte domande che si è posto durante la produzione del lavoro. (Luca Scarabelli)

La macchina non-celibe

Una macchina è un assemblaggio di pezzi, di parti, di elementi eterogenei che entrano in relazioni di connessione-deconnessione, in una dimensione sempre contingente. Ci sono i guasti, le rotture, i malfunzionamenti. Le componenti, agendo le une sulle altre, si usurano, le superfici lisce si striano, quelle striate si lisciano. Non mancano mai gli imprevisti, i corto-circuiti, le connessioni impreviste, gli usi impropri. Si creano spazi interstiziali, nei gangli degli aggiustamenti funzionali, nel gioco prodotto dall’azione reciproca delle parti. E in essi si crea la possibilità di proliferazioni eterogenee, di individuazioni altre, tramite i potenziali offerti dalla sedimentazione di scarti e dal loro contatto con agenti imprevisti.

Diversa è la struttura, che ambisce a uno statuto di atemporalità, si stabilisce come una geometria stabile di posizioni reciproche, il movimento dell’una comporta un riaggiustamento delle altre, mantenendo inalterati i rapporti relazionali, le distanze, le prossimità, le velocità e le lentezze. Al di là dei mutamenti delle sue incarnazioni contingenti, la struttura si riproduce inalterata, all’insegna di un desiderio di eternità.

La macchina celibe riproduce sul piano della macchina il diagramma della struttura, si chiude nell’autosufficienza, in un’eternità abitata dalla riproduzione perenne di se stessa. Interrompe le connessioni con il fuori, nella forma della funzione, che subordinando la macchina a un fine esterno la consegna alla dimensione del meccanismo. Ma in tal modo si esclude la possibilità dell’innesto con altre macchine, che costituisce il tramite per l’attualizzazione di altri potenziali, per la ridefinizione, contingente, del suo procedere macchinico.

La macchina non celibe non è celibe ma non per questo ritorna allo stato del meccanismo. Essa, infatti, pur restando aperta ad altre connessioni e incontri recide la destinazione con la funzione. Ha una collocazione ctonia, sta sotto, come la struttura. Ma mentre quest’ultima mira a determinare il sopra, la macchina non celibe si limita a interferire, in maniera discreta, nei due sensi del termine: “discreto” come sinonimo di non invasivo; “discreto” come contrario di “continuo”. Resta tributaria di un “fuori”, si cui capta i flussi che seleziona, emettendo a sua volta flussi e campi energetici, ma in termini discontinui. Il sopra non è più lo stesso, con la sua presenza, ma non è nemmeno qualcos’altro, e i tempi e le modalità degli incontri, delle interferenze, delle coniugazioni restano aleatori, contingenti, rari. (Massimiliano Guareschi)

AFTER_L’ULTIMO RAVE
Split Step 2022
Ex Macelli Civici, Milano

Un’antenna rivolta verso il cielo. Composta nella parte apicale da quattro woofer esausti sostenuti da una struttura modulare.
Capta tutti i suoni di tutti i rave esistiti dall’inizio dei tempi e da allora dispersi nel cosmo.
L’antenna riceve i segnali e li trasferisce al suolo.
Le frequenze riemergono dal sottosuolo tramite improbabili diffusori sparpagliati nel sito.
Il suono ne risulta filtrato malsano distorto perturbato a seconda delle faglie che incontra dei materiali delle porosità delle incongruenze delle fratture degli ostacoli delle rovine che attraversa.
E attraverso imperscrutabili traiettorie torna nello spazio.

LA FONOSFERA E’ PERDUTA, MA NON DEL TUTTO

2022

Il lockdown era anche tempo di pulizie. Già tanti relitti erano finiti in discarica. Anche le ingombranti vhs stracolme di immagini ormai perdute. Ma quel cassetto pieno di suoni mi accompagnava da troppo tempo. Ferro cromo ferrocromo ferrosuper. Basf Sony Tdk Scotch. Nella chimica inorganica, nei marchi universali risuonavano ancora lontane frequenze che avevano spostato la mia esistenza. La discarica non era destino. Una trasformazione necessaria chiamava: Liberare i nastri!

CORPOACORPOACORPO #2 / CsO

7 ottobre 2021
Studio Pepe 36 / Walk-in Studio Festival 2021

a cura di R+S / AK
con un contributo critico di Massimilano Guareschi

con: Marina Ballo Charmet, Jacopo Benassi, Sergio Breviario, Giuseppe Buffoli, Claudia Canavesi, Camilla Marinoni, Hydra Mentale, Saba Najafi, Francesco Pacelli, Diego Randazzo, Eva Reguzzoni, Luca Scarabelli, Danilo Vuolo

È banale appellarsi al corpo, farne l’istanza dell’autenticità, della naturalità, dell’istintività contrapposto al negativo dello spirito, dei condizionamenti socio-culturali o dei dispositivi istituzionali. Tutta una retorica ricorrente non fa che riproporre l’opposizione anima/corpo. Per uscire da questo schema Deleuze e Guattari riprendono il concetto del corpo senza organi inventato da Antonine Artaud, proponendolo come indicatore cartografico, come orizzonte, o limite, di un “insieme di pratiche. Ne fanno addirittura un acronimo: CsO.
Corpo senza Organi non significa corpo privo di organi. Un organo, al di là della propria materialità e consistenza biologica, è tale in relazione al suo inserimento in una totalità – l’organismo – che gli affida una funzione all’interno di un sistema gerarchico.
Costruirsi un CsO significa rompere con quella configurazione, aprire nuove connessioni, attualizzare riserve di potenziale eccedenti i limiti imposti per innescare nuove macchine trasversali in una dimensione necessariamente processuale.
Il CsO non è uno statuto ma una pratica.

CORPOACORPOACORPO

18-19 giugno 2021
C.S.O.A. COX18 – Via Conchetta 18, Milano

a cura di R+S / AK

con: Jacopo Benassi • Cesare Biratoni • Sergio Breviario • Giuseppe Buffoli •
Silvia Calderoni/Motus • Umberto Cavenago • T-Yong Chung •
Gianluca Codeghini • Ermanno Cristini • Carlo Dell’Acqua •
Federica Ferzoco • Debora Hirsch • Rebecca Mari • Camilla Marinoni •
Giovanni Morbin • Marinella Pirelli • Eva Reguzzoni •
Alessandro Rolandi • Clara Scola • Cosimo Terlizzi

L’emergenza pandemica ha portato il corpo in primo piano: un corpo sottratto, isolato, contaminato, attaccato, medicalizzato, trasformato fino a farlo diventare quasi estraneo ma, allo stesso tempo, sempre più oggetto di desiderio, paesaggio da esplorare e frontiera dell’immaginazione. La pandemia ha svelato fragilità e mancanze che altrimenti sarebbero rimaste silenti: solitudine, insicurezza, diffidenza, malattia e morte, normalmente emarginate e rimosse, hanno messo a nudo un corpo corruttibile, mortale, che si consuma con il passare del tempo ed è consumato dalla povertà, dalla disgregazione, dalla persecuzione, dalla produzione, dalla violenza e dall’abuso, dalla crisi ambientale, sociale e politica. È necessario ripensare il corpo in una prospettiva che tenga conto delle sue potenzialità ma soprattutto delle difformità, delle debolezze,
dei fallimenti. Il corpo nella sua connaturata incompiutezza, come baluardo di resistenza nel suo essere un progetto costantemente in divenire.
Video, sculture, live concepiti come un’unica installazione che racconta il corpo nella molteplicità dei suoi aspetti perché tutto avviene necessariamente nel corpo, inteso come complessa totalità di mente e carne, unico tramite tra noi e l’altro.

Pan
stampa digitale su carta per affissioni, cm 100×70
10 copie numerate e firmate + 1AP

Edizione il m./la centrale ddizioni

Dove sei?
Dove? Quando direi
Ci vediamo? Forse dopo _ Magari sullo schermo
Ma davanti allo schermo c’è un vetro?
Forse no _ Guarda bene
Sul vetro si sono depositate delle cose _ Sembrano immagini
Mavà guarda meglio _ Sarà solo la tua fissazione per le realtà aumentate
Chissà se raccontano qualcosa
Stai connessa troppo _ Te l’ho già detto
Ora sono sparite
Non so se torneranno

D.O.P.O.

Riss(e)/Surplace

15 Luglio – 31 Agosto 2020

Ermanno Cristini, Cesare Biratoni, Joykix, Rossella Moratto, Umberto Cavenago, Claudia Canavesi, Luca Scarabelli, Clara Scola,  Al Fadhil, Giancarlo Norese, Giovanni Sambo, Giuseppe Buffoli, Yari Miele, Francesco Fossati, Fabrizio Milani, Massimo De Caria.


Prolegomeni per un sisma entropico è il senso di questa mostra che sta invece della vacanza o in forma di vacanza.  In vacanza dalla regolare programmazione essendo caduta la regola di regolarità, gli artisti che gestiscono gli spazi di R + S / AK si cimentano in una mostra in progress, dove opere, semilavorati, gesti, intuizioni, si incrociano a sperimentare la cancellazione dei segnali spazio-temporali che definiscono una mostra in quanto mostra. Non vi sarà inaugurazione ma un inizio probabile con una fine possibile per una mostra che si sa quando inizia ma non esattamente quando finisce perché ci piacerebbe vederla proseguire per un tempo indeterminato in ognuno di noi. Nel mezzo e nel mentre si snoderà un percorso non prevedibile animato anche dall’interferenza e dalla partecipazione attiva e nomade di altri artisti invitati a transitare ad uno ad uno, di quando in quando. Non sappiamo bene se visitare D.O.P.O. somiglierà più ad uno studio-visit che alla visita di una mostra, o viceversa, ma sappiamo per certo che sarà da “camminare” fisicamente e non virtualmente.

  • DIASTIMA _ Materia Sonica
  • Gianluca Codeghini / Dies_ / Joykix / Michele Lombardelli / Pietro Pirelli / Luca Scarabelli / Massimiliano Viel
  • Progetto a cura di Rossella Moratto e Fabio Volpi con la collaborazione di Luca Scarabelli
  • 14-28 aprile 2019
  • Chiesa di San Rocco, Carnago (Varese)

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LO SGUARDO DELL’ANGELO

KCC Castello Cabiaglio (VA)

novembre 2018

Lo spazio dell’edificio storico, in passato utilizzato con funzioni precise e pervaso di una sua sacralità, accoglie ora la struttura industriale modulare senza crisi di rigetto (si spera). E la struttura accoglie lo sguardo per il quale è stata realizzata, e così ne ritrova la funzione.
Lo sguardo dell’angelo viene traslato dal passato e proiettato verso il futuro. Lo scarto spazio-temporale lo priva dell’aura spirituale di cui era intriso per donargli lo splendore della luce elettrica trasformandolo in un’insegna pubblicitaria, esposta al rischio di essere inglobata nel buco nero della sovraesposizione mediatica, immagine tra le immagini, di cui non rimarranno nemmeno le macerie.

Uno sguardo “periferico” come volontà di non essere risucchiati nel vortice dell’ingorgo visuale massmediatico dove tutto perde di senso e di valore nell’ipertrofia social della presenza continua e ininterrotta e nell’esposizione pornografica di qualsiasi fatto istantaneamente condiviso in una delle infinite Instagram Stories, quasi istantaneamente precipitate nell’oblio dell’insignificanza.

Uno sguardo resistente che persiste nell’epoca della totale aleatorietà ed evanescenza delle immagini consumate in continuazione da miliardi di sguardi fugaci e irrilevanti.
Uno sguardo schivo, rimasto appartato per secoli, ora scansionato e avvicinato a noi, che si manifesta in una nuova prospettiva.

Occhi tracciati in un tempo in cui la Società dello Spettacolo non si prospettava neanche lontanamente all’orizzonte. In cui la comunicazione tra gli individui non era ancora ridotta alla pervasività della merce.

La struttura con la sua modularità, serialità, chiarezza, composizione, con la sua attitudine progettuale e costruttiva, con il suo impianto di un evidente razionalismo modernista, è ormai consapevole della sua crisi e assume al suo interno il dubbio di uno sguardo perplesso che si fa testimone di uno spirito critico ancora necessario nel tempo presente.
È la necessità di una struttura portante che dia senso alla memoria e alla storia e faccia emergere dalle trame del presente le tracce disciolte del passato – e del suo sguardo – che è riuscito ad attraversare i secoli. (Joykix)

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  • INSTABILESTABILE
  • Chiesa di San Rocco, Carnago (VA)
  • 24 giugno – 15 luglio 2018
  • A cura di Rossella Moratto e Luca Scarabelli

 

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  • In accumulo o in sospeso, ma in equilibrio #2
  • Joykix | Gianluca Quaglia | Eva Reguzzoni | Giuseppe Buffoli | Francesco D’Angelo | Monica Mazzone | Massimiliano Viel
  • Fondazione Bandera per l’ Arte ‐  Busto Arsizio (Va)
  • Dal 9 Ottobre al 12 Novembre 2017

A cura di Rossella Moratto

L’arte è un microcosmo dove avvengono incontri, si costruiscono relazioni, si scatenano conflitti. Volumi, superfici, colori e suoni suggeriscono racconti in divenire, continuamente riscritti. In accumulo o in sospeso ma in equilibrio#2 è una storia nata da un incontro, che si sviluppa sul terreno della pratica operativa in un contesto di negoziazione non convenzionale.
Lo spazio del confronto è l’opera di Joykix, un sistema modulare pensato per adattarsi a diverse situazioni e luoghi e per ospitare lavori di altri artisti che con la loro presenza ne condizionano la configurazione in una dinamica di limitazioni e libertà reciproche. Le distanze poetiche, tecniche ed espressive sono gli stimoli che danno l’avvio alla sfida e all’instaurarsi di una relazione complessa tra diversità – che può anche risultare fallimentare – che determina l’esito dell’operazione.
Il progetto è nato dall’incontro tra Joykix, Eva Reguzzoni e Gianluca Quaglia in occasione di Studi Festival # 3 (2017) e continua negli spazi della Fondazione Bandera con la collaborazione di Giuseppe Buffoli, Francesco D’Angelo, Monica Mazzone e Massimiliano Viel in una nuova configurazione che si propone non come una semplice variazione di uno schema dato ma come un’opera-laboratorio che innesca dinamiche sempre nuove, aperte all’imprevisto. Mostra e opera coincidono in un dispositivo che diventa il terreno di una narrazione aperta, articolata su molteplici livelli con la struttura che diventa allo stesso tempo ambito familiare e corpo estraneo, luogo da abitare e spazio da conquistare, senza temi o suggestioni a priori se non quelle suggerite dal titolo – l’accumulo, l’essere sospeso e la ricerca ideale ma non prescrittiva di un possibile equilibrio.
Il punto di partenza è la struttura-contenitore di Joykix, composta da elementi modulari in alluminio, potenzialmente praticabile e moltiplicabile all’infinito. La costruzione, che riprende e sviluppa alcuni lavori precedenti – della serie Volume – è l’esito di una riflessione sul razionalismo architettonico e sulla sua possibile applicazione nella costruzione di ambienti abitabili a partire da uno spazio neutro. La struttura si sviluppa in relazione alla specificità del sito, ne prende possesso con un ritmo visivo regolare, diventando una costruzione in espansione che richiama idealmente progetti di urbanistica radicale dei tardi anni sessanta e primi settanta come New Babylon, la città nomade di Constant e quello dell’agglomerato liberamente organizzato su un piano continuo di No Stop City di Archizoom con i quali condivide la carica utopica di uno spazio creativo in cui l’ordine costituito è sovvertito, all’interno del quale ognuno può modellare il proprio habitat secondo le proprie necessità, seguendo differenti logiche di interazione.

In accumulo o in sospeso ma in equilibrio#2 è un format in crescita – un’eterotopia, citando Foucault – in cui il processo collaborativo coincide con l’operazione artistica, ponendo una riflessione sul senso dell’evento-mostra. Pur rimanendo nell’ambito dell’estetico, la collettiva cerca di volta in volta le regole del suo farsi e i parametri concettuali della sua interpretazione, proponendosi come una piattaforma partecipativa, un archivio, un laboratorio.

 

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  • Il fantasma della merce
  • Angelo Sarleti | Joykix
  • Sala delle Colonne – Palazzo Comunale, Corbetta (MI)
    Dal 1 al 17 Aprile 2017

A cura di Rossella Moratto e Luca Scarabelli

La merce trascende la concretezza dell’oggetto per occupare pervasivamente la dimensione immateriale del desiderio, dell’identità e dell’immaginario personale e collettivo. Nell’epoca del capitalismo globale e digitale la sua materialità appare quasi residuale mentre accresce esponenzialmente il suo fantasma che è ovunque, un fantasma che sogna.
La colonizzazione fantasmatica delle esistenze individuali, prive di identità di classe, di sistemi di riferimento e di speranze nel futuro che non appare più all’orizzonte dell’eterno presente, si è definitivamente compiuta: la merce sembra essere l’unico universo di significanti su cui formare la propria identità consumatrice e perennemente desiderante attraverso un quotidiano esercizio di proiezione allucinatoria. Il fantasma è il potente meccanismo che il capitalismo mette in atto per governare le soggettività contemporanee e diventa anche il tramite per gestire i rapporti tra individuo e società. Si compie così la progressiva alienazione della soggettività nella merce, in una tensione perenne, mai appagata. Il fantasma sogna e noi con lui.
Il sonno che produce le vivide visioni oniriche che incantano e seducono la maggioranza per alcuni è disturbato, frammentario e discontinuo: nelle pieghe dell’assopimento si appanna lo splendore fittizio dell’incoscienza rivelando un altro aspetto della merce, che si manifesta epifanicamente nella sua ottusa opacità fenomenica.
Non è facile esprimere queste evasioni perché l’onnivoro spettro si nutre di tutto, anche del suo opposto, digerendolo e trasformandolo a sua somiglianza in un processo di accrescimento incessante apparentemente impazzito: per sottrarsi bisogna procedere per allusioni e slittamenti di senso, trasformando la seduzione alienante in adescamento insidioso.
Angelo Sarleti e Joykix tentano di ingannare il fantasma, in modi diversi ma con alcune affinità, ambedue portatori di un’urgenza che rimanda alla questione imprescindibile del soggetto e del sua possibilità di intervenire nel reale.
Joykix si immerge nella merce, spiando voyeuristicamente il mondo segreto del prodotto necessario per eccellenza, il cibo, rivelandone una nudità estranea, perfino sgradevole, abitualmente celata da un’ammaliante confezione. La seduzione del packaging è lo specchio per le allodole, il gioiello a portata di tasca che si esibisce nel suo splendore illuminato dalle luci di una ribalta effimera e destinato presto a diventare scarto privo di valore, il totemico residuo dell’aleatorietà del fantasma, dalla natura apparentemente instabile ma tenace. Ed è questa precarietà, che si alimenta di criticità endemiche e continue che Angelo Sarleti rappresenta come incontro/scontro di figure geometriche che descrivono gli squilibri delle dinamiche del capitale. Sotto le spoglie di innocue geometrie dipinte con tecniche tradizionali che formalmente richiamano la tradizione dell’Astrattismo, traducono l’instabilità dei flussi finanziari prendendone in considerazione di volta in volta diversi aspetti: in particolare in questa serie di prototipi è descritto l’immobilismo precario della crisi ciclica del sistema che – Too big to fail cioè troppo grosso per fallire – si manifesta a velocità sempre più rapida, sacrificando cannibalescamente alcune delle sue membra per la sopravvivenza del corpo disincarnato del capitale.
Rossella Moratto

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A cura di Rossella Moratto

Tre artisti – Joykix, Eva Reguzzoni, Gianluca Quaglia – accettano la sfida di confrontarsi in un contesto di negoziazione non convenzionale, realizzando un’installazione a sei mani. Lo spazio dell’incontro è l’opera-struttura di Joykix – ultimo sviluppo della serie Volume – che diventa il display per i lavori degli artisti che si esprimono con media diversi e sviluppano ricerche eterogenee, quasi opposte, che hanno imposto alla struttura modulare che li accoglie la sua configurazione attuale, in una dinamica di limitazioni e libertà reciproche. Le distanze poetiche, tecniche ed espressive sono lo stimolo che dà avvio alla complessa relazione – che può anche risultare fallimentare – che determina l’esito dell’opera.
L’approccio di Joykix, razionale e costruttivo, fondato sulla pratica del progetto e legato a un ripensamento del razionalismo fa i conti con quello più intimo e viscerale, autoanalitico di Reguzzoni che invece guarda a ritroso, alla dimensione della memoria ricercata con tecniche antiche e desuete e quello estroverso di Quaglia, basato su logiche relazionali e inclusive rispetto al contesto in cui l’intervento si inserisce, in modo lieve ma quasi virale, con strategie di occupazione.
La mostra è quindi il teatro in cui si sviluppa la narrazione dei tre personaggi-autori su molteplici livelli, come interazione fisica e mentale con la struttura data, che diventa insieme ambito familiare e corpo estraneo, luogo da abitare e spazio da conquistare.
La mostra e l’opera coincidono manifestandosi in accumulo o sospeso ma in equilibrio, analizzando allo stesso tempo la sua logica espositiva. È un dispositivo che amplia l’ambito di azione e interazione, rovesciando ruoli e punti di vista, istituendo altre regole e parametri concettuali. La dinamica di incontro/scontro non è determinata da tematiche o suggestioni date a priori ma dalla concreta ricerca di una convivenza che si attua nel processo partecipativo e problematico della costruzione del lavoro.

Rossella Moratto

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Surplace, Varese, dicembre 2016

https://vimeo.com/203571527

a cura di Rossella Moratto

Come nasce un’opera d’arte? È una domanda complessa, alla quale non sempre è possibile dare una risposta: un’immagine vista, una notizia letta sui giornali, a volte un suono. Può essere quasi proustianamente, il rumore del motore entrobordo di un barcone, uno dei tanti che solcano le acque del Mediterraneo con esito incerto, a innescare la miccia delle connessioni che trascendono l’evento concreto nella sintesi dell’opera. L’odissea epocale dei contemporanei Argonauti si rinnova, lasciandosi alle spalle la dimensione mitica e spirituale per diventare la metafora del viaggio – quello dei migranti di ogni epoca, passata presente e futura – e della tensione umana verso lo spostamento, spinto dalla necessità della fuga o dal desiderio della scoperta. Un percorso secolarizzato, allo sbaraglio, senza meta.

Joykix – scenografo di formazione – traduce queste suggestioni in una messinscena. La nuova narrazione, è restituita nella dimensione ambientale di una maquette teatrale i cui elementi sono nudi indizi, a volte ambigui, di un racconto che non ha un andamento univoco né un finale certo. Un’interpretazione immaginaria che sostituisce alla chiarezza teleologica la contraddittorietà del dubbio.

Si procede senza luce, in penombra. Il silenzio è rotto dal rombo sordo del motore di un natante precario, senza presenza umana: è lo spettatore ad assumere il ruolo dell’Argonauta, idealmente imbarcato sulla nave che, lugubre cassa nella forma di un parallelepipedo nero, galleggia solitaria in uno spazio astratto composto da una struttura modulare virtualmente moltiplicabile all’infinito, i cui elementi verticali e orizzontali creano una risonanza visiva corrispondente al ritmo di quella sonora. La struttura riprende e sviluppa alcuni lavori precedenti – della serie Volume e in particolare Volume #4 (con volume #3 incluso)– ed è l’esito di una riflessione critica sull’architettura razionalista e sulla sua aspirazione utopica, in parte fallita nella sua banalizzazione, di cui il frammento di un muro di cemento, ai lati della scena, ne è un residuo. Ma questo scarto è allo stesso tempo un menhir, che si erige come un totemico segnale di un antico percorso di cui si è persa la memoria.

Gli Argonauti del XXI secolo non hanno un destino segnato, viaggiano nell’incertezza di un eterno presente sospeso e antieroico, che fagocita il passato serbandone scarsa memoria e non sembra capace di immaginare il futuro, offuscato e confuso dai fantasmi di bisogni e di desideri indotti, travestiti da traguardi. Il fantasma è una figura ricorrente in Joykix: è l’immagine riflessa della realtà privata della scintillante e rassicurante patina del consumo, l’incubo dell’apparizione del “pasto nudo” nella sua brutalità. Gli spettri della merce nella precedente serie Cibodentro diventano qui quelli delle immagini mediatiche, sirene della spettacolarizzazione deformate dall’eccessiva esposizione che ne smaschera la vacuità. Il richiamo è ridotto a un incoerente rumore di fondo e a un indistinto bagliore, parzialmente celato da una schermatura scura con una residua doratura: anche il vello d’oro ormai ha perso la sua aura e il metallo prezioso è solo un pigmento, smangiato dal nero profondo. La macchina scenica fatta di metallo, luce, suoni, catrame e cemento è erede dell’estetica punk e cyberpunk contaminata da riferimenti all’avanguardia teatrale sovietica dei primi del Novecento –Mejerchol’d tra gli altri –, su cui si innestano la crudeltà di Artaud, la catastrofe immanente di Ballard e l’isolamento delle figure di Bacon. Le tracce si confondono nella surrealtà dell’opera, cronaca frammentaria e contraddittoria. Non si inscena solo la fine delle grandi narrazioni ma anche lo svuotamento e la consunzione delle forme tradizionali della rappresentazione. Gli Argonauti, sopravvissuta vestigia della memoria collettiva, sono riproposti in chiave di pura immanenza, rappresentano la condizione umana nel momento di transizione dalla fine della modernità a un presente entropico, come una domanda senza risposta, nella irriducibile tensione verso l’immaginazione di un possibile orizzonte.

Rossella Moratto

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  • Volume #4 (con volume #3 incluso) 
  • prototipo_2016
  • materiali vari e videoproiezioni
  • dimensioni: cm 360x300x70

SOPRASOTTO. DISEQUILIBRI DELLA VISIONE
A partire dalle riconfigurazioni di Ugo la Pietra                                                               mostra a cura di Ermanno Cristini e Luca Scarabelli

Joykix, Volume 4 (con Volume 3 incluso), 2016


Volume 4 (con Volume 3 incluso) è un dispositivo, un archivio e un display, uno spazio che si definisce di volta in volta in corso d’opera.

Sintetizza la mia riflessione sull’architettura razionalista, partendo dal concetto di modulo (60×60 cm e suoi sottomultipli) dedotto dalle caratteristiche dei materiali prefabbricati industriali presenti nello spazio espositivo (pannelli per controsoffittatura, piastrelle per pavimenti e rivestimenti murari), un supermercato in disuso.

Il modulo standardizzato diventa l’unità di misura per una struttura che adatta la propria forma e dimensione all’ambiente: in questo caso, rispondendo al concept curatoriale, propone il ribaltamento del controsoffitto invertendolo “sotto sopra”.

Volume 4 è anche un archivio, una griglia per esporre altre opere, visibili unicamente abbassandosi e spiando tra gli elementi costruttivi – dove sono parzialmente celate sotto forma di immagini residuali – o alzando lo sguardo: due video della serie Cibodentro che ci introducono all’interno del mondo segreto dei surgelati, dentro ai sacchetti ermeticamente chiusi, rivelando l’alimento come corpo estraneo nella sua nudità fenomenica nascosta delle invitanti e rassicuranti confezioni esposte sugli scaffali del banco-frigo. Ciò che della merce vediamo e che ci seduce è la confezione, destinata a diventare scarto immediatamente dopo l’acquisto, pur non subendo un processo di degrado, anzi rimanendo come testimone/scoria. Il blister é l’erede postmoderno della custodia, che invece era involucro prezioso e duraturo, e qui, nella metaforica trasparenza di un parallalepipedo di PVC, è reso come fantasma della merce di cui conserva in forma di impressioni le tracce del suo passaggio.

La rigidità della struttura contrasta con l’aleatorietà delle immagini, che la mette in crisi: l’utopia razionalista si rovescia nella distopia quotidiana del consumo.

Rossella Moratto

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  • Volume #2 
  • materiali vari con videoproiezione_2016
  • collettiva Aosta Dreamin’ _ Studi Festival 2016.   15-19 marzo 2016 

 

Joykix_fantasma

Il rivoluzionario saprà anche che la fuga è rivoluzionaria.

Ma io so che la fuga è una prassi fallimentare, comunque.

Pratica impossibile nella quale l’ombra del fantasma si palesa costante.

E verso il fantasma nessuna arma può servire.

Lunga vita ai fantasmi!

http://www.cosecosmiche.org/

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Joykix e l’ «inconscio ottico» del nostro cibo

Il fantasma della libertà. (Cibo dentro) di Joykix è come gettare uno scandaglio visivo dentro il rapporto che intratteniamo oggi con il cibo, ovvero con uno dei simboli (e dei sintomi) più potenti del nostro mondo e di noi stessi. Guardare dentro il cibo significa guardare in noi stessi, guardarci dentro. Una delle parole che testimonia questa identità del vivere umano con il cibo è la parola convivium legata a cum-vivere, «vivere insieme»: l’atto di mangiare rinvia al mangiare insieme e ciò a sua volta rinvia alla natura sociale dell’azione e della vita nel suo complesso, alla dimensione essenzialmente politica della sua libertà.
La comunanza e la congenericità dei singoli uomini nel cibo ci viene ricordata in una delle variazioni del mito greco di Dioniso: il dio venne divorato dai Titani e per questa ragione essi furono ridotti in polvere da Zeus; da questa polvere nacquero gli uomini, ma ognuno porta con sé in corpo un frammento di Dioniso. La stessa immagine rivive nell’eucarestia cristiana, l’essere uomini in senso più profondo può accadere solo prendendo parte alla sacra mensa, in cui si torna a mangiare il corpo e il sangue di Cristo.
Nonostante la dimensione rituale del convivium con tutta la sua forza simbolica continui a resistere, il baricentro del nostro rapporto con il cibo si è spostato su aspetti nutrizionali e igienici: nel sistema del lavoro planetario, il cibo è merce, un combustibile per far muovere la macchina umana. Il cibo stesso si muove per miglia di chilometri, da un continente all’altro e per consentire questo spostamento dai luoghi di produzione agli scaffali viene congelato, imballato; così la vita di spinaci, carne, pesci, polli viene bloccata perché possa riprendere solo sul fondo delle pentole o di forni a microonde. Quali sono le geometrie, i colori, le superfici dell’alimentazione colta nella sua versione più igienicamente contemporanea? Come si presenta ai nostri occhi ciò che fa funzionare la macchina umana, un attimo prima che ritorni a ricordare in modo più o meno vago la vita da cui proviene?
Lo sguardo fotografico di Joykix penetra nei recessi di confezioni specchianti per cogliere un passaggio, un momento di sospensione di questa complessa filiera della produzione del cibo umano. Le immagini di Joykix colgono l’istante in cui il cibo è ancora dentro, dentro la busta, dentro forme algide e astratte che di lì a poco torneranno a somigliare a ciò da cui provengono, piselli, carote, gamberetti, polpette… L’occhio fotografico di Joykix coglie il punto celato, rimosso e nevralgico del processo di produzione del combustibile della macchina umana: a Joykix non interessano le sfavillanti immagini delle confezioni, né l’origine del cibo, ma quello stato intermedio che lo caratterizza incontrovertibilmente per le sue funzioni, attraverso le figure che ci appaiono affiorando alla superficie degli involucri. Le complesse storie di ricerca chimiche, fisiche, dietologiche, pubblicitarie ed economiche che stanno dietro a ogni singolo prodotto hanno forme e colori che Joykix ci rende visibili, prima che svaniscano inavvertite nell’irriflesso gesto quotidiano, come se nulla fosse successo, come se il rigido agglomerato ocra fossero solo patate, come se il blocco verdastro che si cela nell’involucro lucido dinanzi a me fossero davvero solo spinaci. La vita degli alimenti è stata forzatamente fermata, una volta che la confezione è stata aperta, la vita riprende, il combustibile torna a essere disponibile per far funzionare la macchina; ma qualcosa dentro il gelido sacchetto è successo. Prima che ci si dimentichino le storie che hanno portato fino a noi ciò che sta in quei luccicanti involucri protettivi, prima che quei prodotti tornino ad assomigliare più o meno vagamente alle piante o agli animali da cui derivano, Joykix punta lo sguardo a quelle sculture misteriose, anonime e raggelanti che costituiscono l’anello di congiunzione tra la vita di quelle piante e di quegli animali e le nostre vite. Lo sguardo di Joykix mostra quanto sia ancora vero ciò che diceva Walter Benjamin a proposito della fotografia, ovvero che può portare alla visibilità «l’inconscio ottico» dell’esistenza umana, ciò che tende a passare inosservato e che pure caratterizza in modo determinante la nostra vita.
Le fotografie di Joykix ci spingono con gli occhi e con i sensi a una distanza ravvicinata e inaspettata fino a farci sentire l’assenza di odore della vita bloccata del cibo, un’immagine in cui riconosciamo la nostra vita inceppata, il congelamento del nostro convivium, della nostra libertà e, allo stesso tempo, il luogo e le forme da cui ripartire.

Maurizio Guerri

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Senza orizzonte [Porta Nuova] è un insieme di immagini derivate da scatti fotografici aventi come soggetto alcuni nuovi edifici di Milano, sedi di importanti aziende, banche, compagnie di assicurazioni, residenze di prestigio, che oggi segnano in maniera deliberatamente evidente e imponente il paesaggio.

Sono dei pieni che hanno riempito vuoti che per molti anni sono stati presenti in una zona centrale della città e ne hanno costituito un’anomalia rispetto al generale sviluppo urbano. Vuoti e territori abbandonati che da sempre sono stati per me presenza piena e riconoscibile nell’attraversamento della città e che ora ne hanno subito lo stravolgimento.

Il nuovo orizzonte di Milano: rapide edificazioni, fortemente assertive e affascinanti, hanno modificato radicalmente la percezione dello spazio urbano nella sua dimensione alto-basso. È la tormentata downtown lungamente sognata dal dopoguerra per segnare Milano (città orizzontale per natura) finalmente anche in verticale. Una verticalità che rende visibile ed evidente quale sia e dove sia il vero Centro Direzionale, che sintetizza con grande forza scultorea dove si condensa il potere.

Ma il mio lavoro non è di tipo documentario o analitico, piuttosto è trasfigurare e reinterpretare in chiave visionaria il significato di queste volumetrie, smontandole e rimontandole in altre prospettive. Filtrando le immagini originarie attraverso una percezione oscillante da una forma forte e fortemente assertiva, a una composizione frammentata e in equilibrio precario, in bilico e già protesa verso la sua necessaria e inevitabile distruzione.

Le immagini sono realizzate con vari strumenti di ripresa, dalla fotocamera tradizionale di buona qualità, alla piccola digitale tascabile, al telefono, allo scatto da pc. La tecnica e la resa finale risultano fortemente oscillanti da una forma più rigorosa e aderente a una visione “realistica” e documentaria a slittamenti più impressionistici, onirici, destrutturanti, virtuali. La commistione avviene anche con scatti effettuati durante sopralluoghi avvenuti in zona tramite Google Earth.

Questi sono parte di una mappatura nuova. Una copia dell’esistente che necessita, in questa fase di grandi stravolgimenti globali, di una sua rappresentazione tridimensionale. Uno spazio virtuale dove ricostruire i luoghi-copia dell’esistente. Ma in questa copia, che ci si aspetterebbe tendente alla perfezione, si verificano errori. Gravi errori. Evidenti e divertenti. Gli edifici entrano in contatto con la mappatura superficiale e ne provocano la distruzione, la rottura della trama, della consequenzialità, della distesa topografica. Come una pelle delicatissima che non regge l’urto dell’innesto. Un paesaggio di rovine virtuali che mal si accorda con l’idea di paesaggio che dovrebbe rappresentare. Strade che si presentano come vittime di sconvolgimenti, faglie, erosioni, bombardamenti, crolli. Casualmente sono i luoghi dove si condensano i centri decisionali più potenti del pianeta. Come rovine senza un passato. Paesaggi come esiti di un passato che non c’è mai stato.

È una involontaria distopia, metaforicamente esauriente.

Lavoro sul paesaggio come ciò che rimane di incontestabilmente visibile della storia. Paesaggio come distesa di manufatti e alterazioni visibili o che si rendono visibili. Testimonianze del passaggio dell’uomo sulla terra e delle sue trasformazioni. Paesaggio come traccia di ciò che è stato. Come testo da leggere e interpretare.

Il paesaggio diventa il collettore di tutto. Ma la sua percezione non è più lineare e consequenziale ma oscilla paurosamente dalla durezza della materia cementizia all’aleatorietà: la durezza dello spigolo si trasforma nella molle deformazione. La rigorosa consequenzialità degli elementi geometrici collassa in un incongruo ammasso di frammentazioni. Liquide immagini virtuali.

Guardo con fascinazione e orrore queste forme che si impongono.

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JPMorgan Chase & Co., 270 Park Avenue,  New York, USA.                                         2013-10-16  19:18:23

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The New York Stock Exchange, 11 Wall St, New York, USA.                                        2013-08-27 ‏‎ 21:41:46

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Standard & Poor’s Building,

Financial Services LLC, 55 Water Street, New York, USA.               2013-08-18 ‏ ‎16:04:14