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Senza orizzonte [Porta Nuova] è un insieme di immagini derivate da scatti fotografici aventi come soggetto alcuni nuovi edifici di Milano, sedi di importanti aziende, banche, compagnie di assicurazioni, residenze di prestigio, che oggi segnano in maniera deliberatamente evidente e imponente il paesaggio.

Sono dei pieni che hanno riempito vuoti che per molti anni sono stati presenti in una zona centrale della città e ne hanno costituito un’anomalia rispetto al generale sviluppo urbano. Vuoti e territori abbandonati che da sempre sono stati per me presenza piena e riconoscibile nell’attraversamento della città e che ora ne hanno subito lo stravolgimento.

Il nuovo orizzonte di Milano: rapide edificazioni, fortemente assertive e affascinanti, hanno modificato radicalmente la percezione dello spazio urbano nella sua dimensione alto-basso. È la tormentata downtown lungamente sognata dal dopoguerra per segnare Milano (città orizzontale per natura) finalmente anche in verticale. Una verticalità che rende visibile ed evidente quale sia e dove sia il vero Centro Direzionale, che sintetizza con grande forza scultorea dove si condensa il potere.

Ma il mio lavoro non è di tipo documentario o analitico, piuttosto è trasfigurare e reinterpretare in chiave visionaria il significato di queste volumetrie, smontandole e rimontandole in altre prospettive. Filtrando le immagini originarie attraverso una percezione oscillante da una forma forte e fortemente assertiva, a una composizione frammentata e in equilibrio precario, in bilico e già protesa verso la sua necessaria e inevitabile distruzione.

Le immagini sono realizzate con vari strumenti di ripresa, dalla fotocamera tradizionale di buona qualità, alla piccola digitale tascabile, al telefono, allo scatto da pc. La tecnica e la resa finale risultano fortemente oscillanti da una forma più rigorosa e aderente a una visione “realistica” e documentaria a slittamenti più impressionistici, onirici, destrutturanti, virtuali. La commistione avviene anche con scatti effettuati durante sopralluoghi avvenuti in zona tramite Google Earth.

Questi sono parte di una mappatura nuova. Una copia dell’esistente che necessita, in questa fase di grandi stravolgimenti globali, di una sua rappresentazione tridimensionale. Uno spazio virtuale dove ricostruire i luoghi-copia dell’esistente. Ma in questa copia, che ci si aspetterebbe tendente alla perfezione, si verificano errori. Gravi errori. Evidenti e divertenti. Gli edifici entrano in contatto con la mappatura superficiale e ne provocano la distruzione, la rottura della trama, della consequenzialità, della distesa topografica. Come una pelle delicatissima che non regge l’urto dell’innesto. Un paesaggio di rovine virtuali che mal si accorda con l’idea di paesaggio che dovrebbe rappresentare. Strade che si presentano come vittime di sconvolgimenti, faglie, erosioni, bombardamenti, crolli. Casualmente sono i luoghi dove si condensano i centri decisionali più potenti del pianeta. Come rovine senza un passato. Paesaggi come esiti di un passato che non c’è mai stato.

È una involontaria distopia, metaforicamente esauriente.

Lavoro sul paesaggio come ciò che rimane di incontestabilmente visibile della storia. Paesaggio come distesa di manufatti e alterazioni visibili o che si rendono visibili. Testimonianze del passaggio dell’uomo sulla terra e delle sue trasformazioni. Paesaggio come traccia di ciò che è stato. Come testo da leggere e interpretare.

Il paesaggio diventa il collettore di tutto. Ma la sua percezione non è più lineare e consequenziale ma oscilla paurosamente dalla durezza della materia cementizia all’aleatorietà: la durezza dello spigolo si trasforma nella molle deformazione. La rigorosa consequenzialità degli elementi geometrici collassa in un incongruo ammasso di frammentazioni. Liquide immagini virtuali.

Guardo con fascinazione e orrore queste forme che si impongono.