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  • Il fantasma della merce
  • Angelo Sarleti | Joykix
  • Sala delle Colonne – Palazzo Comunale, Corbetta (MI)
    Dal 1 al 17 Aprile 2017

A cura di Rossella Moratto e Luca Scarabelli

La merce trascende la concretezza dell’oggetto per occupare pervasivamente la dimensione immateriale del desiderio, dell’identità e dell’immaginario personale e collettivo. Nell’epoca del capitalismo globale e digitale la sua materialità appare quasi residuale mentre accresce esponenzialmente il suo fantasma che è ovunque, un fantasma che sogna.
La colonizzazione fantasmatica delle esistenze individuali, prive di identità di classe, di sistemi di riferimento e di speranze nel futuro che non appare più all’orizzonte dell’eterno presente, si è definitivamente compiuta: la merce sembra essere l’unico universo di significanti su cui formare la propria identità consumatrice e perennemente desiderante attraverso un quotidiano esercizio di proiezione allucinatoria. Il fantasma è il potente meccanismo che il capitalismo mette in atto per governare le soggettività contemporanee e diventa anche il tramite per gestire i rapporti tra individuo e società. Si compie così la progressiva alienazione della soggettività nella merce, in una tensione perenne, mai appagata. Il fantasma sogna e noi con lui.
Il sonno che produce le vivide visioni oniriche che incantano e seducono la maggioranza per alcuni è disturbato, frammentario e discontinuo: nelle pieghe dell’assopimento si appanna lo splendore fittizio dell’incoscienza rivelando un altro aspetto della merce, che si manifesta epifanicamente nella sua ottusa opacità fenomenica.
Non è facile esprimere queste evasioni perché l’onnivoro spettro si nutre di tutto, anche del suo opposto, digerendolo e trasformandolo a sua somiglianza in un processo di accrescimento incessante apparentemente impazzito: per sottrarsi bisogna procedere per allusioni e slittamenti di senso, trasformando la seduzione alienante in adescamento insidioso.
Angelo Sarleti e Joykix tentano di ingannare il fantasma, in modi diversi ma con alcune affinità, ambedue portatori di un’urgenza che rimanda alla questione imprescindibile del soggetto e del sua possibilità di intervenire nel reale.
Joykix si immerge nella merce, spiando voyeuristicamente il mondo segreto del prodotto necessario per eccellenza, il cibo, rivelandone una nudità estranea, perfino sgradevole, abitualmente celata da un’ammaliante confezione. La seduzione del packaging è lo specchio per le allodole, il gioiello a portata di tasca che si esibisce nel suo splendore illuminato dalle luci di una ribalta effimera e destinato presto a diventare scarto privo di valore, il totemico residuo dell’aleatorietà del fantasma, dalla natura apparentemente instabile ma tenace. Ed è questa precarietà, che si alimenta di criticità endemiche e continue che Angelo Sarleti rappresenta come incontro/scontro di figure geometriche che descrivono gli squilibri delle dinamiche del capitale. Sotto le spoglie di innocue geometrie dipinte con tecniche tradizionali che formalmente richiamano la tradizione dell’Astrattismo, traducono l’instabilità dei flussi finanziari prendendone in considerazione di volta in volta diversi aspetti: in particolare in questa serie di prototipi è descritto l’immobilismo precario della crisi ciclica del sistema che – Too big to fail cioè troppo grosso per fallire – si manifesta a velocità sempre più rapida, sacrificando cannibalescamente alcune delle sue membra per la sopravvivenza del corpo disincarnato del capitale.
Rossella Moratto

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A cura di Rossella Moratto

Tre artisti – Joykix, Eva Reguzzoni, Gianluca Quaglia – accettano la sfida di confrontarsi in un contesto di negoziazione non convenzionale, realizzando un’installazione a sei mani. Lo spazio dell’incontro è l’opera-struttura di Joykix – ultimo sviluppo della serie Volume – che diventa il display per i lavori degli artisti che si esprimono con media diversi e sviluppano ricerche eterogenee, quasi opposte, che hanno imposto alla struttura modulare che li accoglie la sua configurazione attuale, in una dinamica di limitazioni e libertà reciproche. Le distanze poetiche, tecniche ed espressive sono lo stimolo che dà avvio alla complessa relazione – che può anche risultare fallimentare – che determina l’esito dell’opera.
L’approccio di Joykix, razionale e costruttivo, fondato sulla pratica del progetto e legato a un ripensamento del razionalismo fa i conti con quello più intimo e viscerale, autoanalitico di Reguzzoni che invece guarda a ritroso, alla dimensione della memoria ricercata con tecniche antiche e desuete e quello estroverso di Quaglia, basato su logiche relazionali e inclusive rispetto al contesto in cui l’intervento si inserisce, in modo lieve ma quasi virale, con strategie di occupazione.
La mostra è quindi il teatro in cui si sviluppa la narrazione dei tre personaggi-autori su molteplici livelli, come interazione fisica e mentale con la struttura data, che diventa insieme ambito familiare e corpo estraneo, luogo da abitare e spazio da conquistare.
La mostra e l’opera coincidono manifestandosi in accumulo o sospeso ma in equilibrio, analizzando allo stesso tempo la sua logica espositiva. È un dispositivo che amplia l’ambito di azione e interazione, rovesciando ruoli e punti di vista, istituendo altre regole e parametri concettuali. La dinamica di incontro/scontro non è determinata da tematiche o suggestioni date a priori ma dalla concreta ricerca di una convivenza che si attua nel processo partecipativo e problematico della costruzione del lavoro.

Rossella Moratto

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Surplace, Varese, dicembre 2016

https://vimeo.com/203571527

a cura di Rossella Moratto

Come nasce un’opera d’arte? È una domanda complessa, alla quale non sempre è possibile dare una risposta: un’immagine vista, una notizia letta sui giornali, a volte un suono. Può essere quasi proustianamente, il rumore del motore entrobordo di un barcone, uno dei tanti che solcano le acque del Mediterraneo con esito incerto, a innescare la miccia delle connessioni che trascendono l’evento concreto nella sintesi dell’opera. L’odissea epocale dei contemporanei Argonauti si rinnova, lasciandosi alle spalle la dimensione mitica e spirituale per diventare la metafora del viaggio – quello dei migranti di ogni epoca, passata presente e futura – e della tensione umana verso lo spostamento, spinto dalla necessità della fuga o dal desiderio della scoperta. Un percorso secolarizzato, allo sbaraglio, senza meta.

Joykix – scenografo di formazione – traduce queste suggestioni in una messinscena. La nuova narrazione, è restituita nella dimensione ambientale di una maquette teatrale i cui elementi sono nudi indizi, a volte ambigui, di un racconto che non ha un andamento univoco né un finale certo. Un’interpretazione immaginaria che sostituisce alla chiarezza teleologica la contraddittorietà del dubbio.

Si procede senza luce, in penombra. Il silenzio è rotto dal rombo sordo del motore di un natante precario, senza presenza umana: è lo spettatore ad assumere il ruolo dell’Argonauta, idealmente imbarcato sulla nave che, lugubre cassa nella forma di un parallelepipedo nero, galleggia solitaria in uno spazio astratto composto da una struttura modulare virtualmente moltiplicabile all’infinito, i cui elementi verticali e orizzontali creano una risonanza visiva corrispondente al ritmo di quella sonora. La struttura riprende e sviluppa alcuni lavori precedenti – della serie Volume e in particolare Volume #4 (con volume #3 incluso)– ed è l’esito di una riflessione critica sull’architettura razionalista e sulla sua aspirazione utopica, in parte fallita nella sua banalizzazione, di cui il frammento di un muro di cemento, ai lati della scena, ne è un residuo. Ma questo scarto è allo stesso tempo un menhir, che si erige come un totemico segnale di un antico percorso di cui si è persa la memoria.

Gli Argonauti del XXI secolo non hanno un destino segnato, viaggiano nell’incertezza di un eterno presente sospeso e antieroico, che fagocita il passato serbandone scarsa memoria e non sembra capace di immaginare il futuro, offuscato e confuso dai fantasmi di bisogni e di desideri indotti, travestiti da traguardi. Il fantasma è una figura ricorrente in Joykix: è l’immagine riflessa della realtà privata della scintillante e rassicurante patina del consumo, l’incubo dell’apparizione del “pasto nudo” nella sua brutalità. Gli spettri della merce nella precedente serie Cibodentro diventano qui quelli delle immagini mediatiche, sirene della spettacolarizzazione deformate dall’eccessiva esposizione che ne smaschera la vacuità. Il richiamo è ridotto a un incoerente rumore di fondo e a un indistinto bagliore, parzialmente celato da una schermatura scura con una residua doratura: anche il vello d’oro ormai ha perso la sua aura e il metallo prezioso è solo un pigmento, smangiato dal nero profondo. La macchina scenica fatta di metallo, luce, suoni, catrame e cemento è erede dell’estetica punk e cyberpunk contaminata da riferimenti all’avanguardia teatrale sovietica dei primi del Novecento –Mejerchol’d tra gli altri –, su cui si innestano la crudeltà di Artaud, la catastrofe immanente di Ballard e l’isolamento delle figure di Bacon. Le tracce si confondono nella surrealtà dell’opera, cronaca frammentaria e contraddittoria. Non si inscena solo la fine delle grandi narrazioni ma anche lo svuotamento e la consunzione delle forme tradizionali della rappresentazione. Gli Argonauti, sopravvissuta vestigia della memoria collettiva, sono riproposti in chiave di pura immanenza, rappresentano la condizione umana nel momento di transizione dalla fine della modernità a un presente entropico, come una domanda senza risposta, nella irriducibile tensione verso l’immaginazione di un possibile orizzonte.

Rossella Moratto